Crediti

Scoprire la scienza

© José Miguel Viñas, 2016
© 2016 EMSE EDAPP, S.L.

Realizzazione editoriale: Studio Festos, Milano
Traduzione: Veronica della Rocca
Revisione scientifica: Antonio Mandarino
© Grafica e illustrazione della copertina: J. Mauricio Restrepo
Progetto grafico: Kira Riera
© Illustrazioni: Jordi Dacs

© Fotografie: tutte le immagini di questo volume sono di pubblico dominio, salvo quelle a p. 23 (Milan Gonda/Shutterstock), p. 24 (Morphart Creation/Shutterstock), p. 36 (Designua/Shutterstock), p. 45 (ModeList/Shutterstock), p. 67 (bubusik/Shutterstock), p. 89 (a: C_Eng-Wong Photography/Shutterstock, b: Korionov/Shutterstock, c: Intrepix/ Shutterstock), p. 103 (Danield/Shutterstock).

Edizione digitale: Vorpal.

ISBN: 978-84-16330-98-0

Introduzione

Se un giornalista ci fermasse per strada chiedendoci cosa sia il cambiamento climatico o di definire un anticiclone, una nube o un parafulmine, oppure se ci chiedesse di spiegare la differenza fra un tornado e un uragano, avremmo subito qualcosa da rispondere – infatti per noi sono termini familiari –, ma i nostri commenti sarebbero senz’altro imprecisi, ambigui e pieni di errori grossolani. Considerato che tutti parliamo del tempo dal mattino alla sera, è paradossale quanto scarsa e inadeguata possa essere la preparazione dei profani in materia.

La meteorologia è una scienza relativamente giovane, che continua a coesistere con tradizioni popolari, riti e credenze tuttora molto radicati fra la gente. In questo libro si ripercorre in breve la sua storia, dai primi tentativi degli esseri umani di capire i fenomeni atmosferici e anticiparne la comparsa (conoscenza empirica), fino all’instaurazione dei principi della meteorologia moderna durante il Rinascimento (conoscenza scientifica), e gli sviluppi seguenti fino ai nostri giorni. Lungo il cammino, l’umanità ha potuto accumulare molte esperienze e nozioni che hanno contribuito a completare e rafforzare le scienze relative ai fenomeni atmosferici. L’applicazione pratica di questo sapere ci ha portato innumerevoli benefici. Solo per fare un esempio: al giorno d’oggi sarebbe azzardato viaggiare su un aereo se i piloti non avessero in mano informazioni meteorologiche precise e aggiornate, utili a organizzare sia le attività degli aeroporti sia le diverse rotte. Ogni giorno, 100.000 aerei sfrecciano nei cieli di tutto il mondo, e nonostante ciò, la percentuale degli incidenti aerei per cause meteorologiche è irrilevante.

Le nozioni sull’ambiente atmosferico che abbiamo si basano sulle osservazioni che facciamo. Da quando esistono gli strumenti adatti – dalla metà del XVII secolo –, siamo in grado di descrivere esattamente lo stato dell’atmosfera in un dato momento, per cui è possibile misurare una serie di variabili meteorologiche, servendoci di stazioni terrestri, boe, palloncini sonda o satelliti. Attualmente la nostra copertura si estende sull’intero pianeta, e ogni giorno si raccolgono milioni di dati da registrare. È grazie a tutte queste informazioni, insieme alle possibilità di calcolo raggiunte dai computer, che possiamo fare pronostici sul tempo sempre più certi e dettagliati.

Dopo l’excursus storico sui primi passi mossi dalla scienza di quel tempo, nel libro entreranno in scena i protagonisti della meteorologia: la natura propria dell’aria e il meccanismo che regola l’atmosfera, fino a ciascuna delle variabili meteorologiche di cui i climatologi e i meteorologi si servono per fare il proprio lavoro.

Il capitolo 6 è dedicato alla «meteodiversità». Si inizia facendo un giro tra le nuvole, per poi spiegare nei dettagli la presenza dei fronti atmosferici, delle burrasche e dei loro fratelli maggiori: i cicloni tropicali. A fine capitolo si affronta il fenomeno inquietante dei temporali, capaci di suscitare in noi un misto di paura e di fascino. Alla fine del percorso, il lettore sarà in grado di rispondere con sicurezza alle domande del giornalista che abbiamo incontrato all’inizio. Ma il libro non finisce qui, resta da trattare un tema che forse è il più appassionante: le previsioni meteorologiche, cui è dedicato il penultimo capitolo. Pochi rami del sapere sono cresciuti tanto in fretta come quello delle previsioni del tempo in termini numerici. Siamo sempre stati interessati al tempo che verrà. Nel mondo antico, quando la gran parte delle persone coltivava la terra, era una questione di sopravvivenza; oggi l’esigenza di raccogliere informazioni sul tempo è legata alla pianificazione delle nostre attività all’aperto. Non c’è da sorprendersi se le trasmissioni del meteo in TV sono tanto seguite. Le condizioni meteorologiche influiscono sulla nostra vita; anche il carattere delle persone mantiene una stretta relazione con il clima del contesto vissuto, e così via: esiste un gran numero di connessioni fra noi e l’atmosfera.

Infine, l’ultimo capitolo del libro è dedicato al clima, in particolar modo ai cambiamenti che ha subito nel corso della storia. Comprendere le cause che hanno portato ai cambiamenti climatici avvenuti in passato – di origine diversa – è fondamentale per valutare il carattere eccezionale dell’odierno riscaldamento globale, e per fare previsioni sugli sviluppi futuri del clima. Solo dopo aver preso coscienza della nostra inequivocabile responsabilità sul riscaldamento del pianeta, capiremo come evitare che il clima si evolva verso scenari poco auspicabili, nei quali sarebbe difficile poterci adattare.

Da sempre scrutiamo il cielo

«L’esalazione secca è il principio e la natura dei venti.»

ARISTOTELE, Meteorologia, libro II, cap. 4

Diluvi e tempeste del passato

Nell’Antichità, molto prima che la meteorologia nascesse come disciplina scientifica, gli uomini cercarono una spiegazione dei fenomeni atmosferici nel soprannaturale. Solo il dio di turno poteva scatenare temporali e devastanti inondazioni. Ricordiamo, solo per citarne uno, che nella mitologia greca, Zeus – padre di tutti gli dei dell’Olimpo e degli uomini – era il dio del cielo e del fulmine, e quando si adirava scagliava saette senza pietà.

L’interesse dell’essere umano nei confronti del tempo è stato da sempre evidente e dimostrato nelle narrazioni epiche e nelle manifestazioni artistiche – le pitture rupestri – che oggi ci restano delle culture primitive, e grazie alle quali a poco a poco è rimasta una traccia «scritta» della storia del tempo e del clima. Il più delle volte queste espressioni fanno riferimento a fenomeni meteorologici eccezionali che ebbero conseguenze catastrofiche e che, pertanto, sconvolgevano la normalità restando impressi nella memoria collettiva. Nelle pitture delle tribù dei San (i Boscimani), scoperte in alcune caverne dell’attuale Sudafrica, non mancano le rappresentazioni simboliche che alludono al tempo atmosferico. Si stima che le più antiche possano risalire a 70.000 anni fa, e in alcune di esse si vedono rituali come le danze della pioggia.

In quasi tutte le culture e le civiltà del passato si trovano riferimenti a una grande inondazione. Questo risponde alla nostra esigenza di mantenere un controllo sull’acqua, qualcosa che abbiamo sempre perseguito, e che si è rivelato determinante per la comparsa delle prime città. I fiumi erano una garanzia di prosperità, è intorno ai fiumi che nacquero le prime civiltà, ma il loro flusso cambiava, in balia di un clima capriccioso. Grandi siccità si alternavano a periodi di intense piogge in cui l’acqua straripava. La storia dei grandi fiumi è costellata di infinite alluvioni. Nel caso della Mesopotamia – culla della civiltà occidentale – le inondazioni sul Tigri e sull’Eufrate diedero origine nella storia giudeo-cristiana al mito del diluvio universale. Nella cosiddetta Epopea di Gilgamesh, incisa con scrittura cuneiforme su tavolette d’argilla oltre 4.000 anni fa, compare il primo riferimento al diluvio universale. Questo diluvio è il castigo voluto dagli dei per punire gli uomini delle loro azioni malvagie.

Anche nell’Antico Egitto rimase una traccia delle variazioni periodiche del livello del Nilo, legate al regime delle piogge alla fonte del fiume. Prima che venisse costruita l’imponente diga di Assuan – portata a termine durante la decade del 1960 – l’aumento del livello del Nilo era una conseguenza diretta dello spostamento d’acqua del lago Vittoria – una delle sorgenti del fiume sacro agli Egizi, che nasce dall’incontro dei fiumi Nilo e Kagera – alla fine della stagione delle piogge.

Durante l’epoca dei faraoni, gli Egizi idearono i cosiddetti «nilometri» da collocare lungo gli argini. Questi sistemi di controllo rappresentano, probabilmente, i primi strumenti della storia fatti per misurare i cambiamenti naturali legati al clima. Il nilometro era uno strumento molto semplice: una colonna di pietra, dotata di una scala graduata, situata al piano terra di una costruzione fatta apposta per allagarsi, che permetteva di misurare il livello del fiume.

Invocare gli dei e altre tradizioni

Mentre con l’andar del tempo la meteorologia proseguiva il suo sviluppo, parallelamente iniziarono a diffondersi numerose credenze, riti e tradizioni sul tempo atmosferico. Storicamente, la meteorologia popolare ha convissuto – e continua a farlo ancora oggi – accanto ai dettami della meteorologia scientifica. Le rogazioni, per esempio, hanno una lunga tradizione nella storia dei cristiani. Si tratta di orazioni pubbliche rivolte a certi santi che sono accompagnati in processione, preghiere che i credenti recitano all’unisono, chiedendo alla divinità di cambiare il tempo e porre fine alle calamità patite. Da molti secoli, la chiesa ha stabilito nei dettagli tutte le litanie e gli atti da compiere in queste occasioni, inoltre esiste un gran numero di documenti che attestano la celebrazione di queste pratiche.

Troviamo dati precisi sulle rogazioni negli atti municipali e capitolari del periodo medievale, e questo ha messo in grado i climatologi di iniziare una ricerca trasversale interessante. Possiamo sapere non solo il giorno e l’anno in cui si tenne una certa rogazione, ma anche scoprire se un periodo di siccità fosse particolarmente duro. Le cosiddette orazioni pro pluvia (per la pioggia) obbligavano i fedeli a compiere diversi atti, a seconda della gravità della situazione da scongiurare. Nei casi più estremi, venivano addirittura immerse sott’acqua delle reliquie o le immagini sacre dei santi.

Anche l’atavica paura suscitata dai temporali e da fenomeni quali il fulmine o la grandine ha fatto nascere, nel corso della storia, infiniti rituali, per metà pagani e per metà religiosi, destinati a proteggere beni e vite umane. Una tradizione che è stata mantenuta fino ai nostri giorni è quella di raccomandarsi a certi santi, soprattutto a Santa Barbara, che notoriamente protegge dai fulmini. Esistono numerose superstizioni, come quella di fare il segno della croce sulla soglia di casa con il sale, gettare una manciata di sale nel fuoco, o indossare amuleti per scampare al temporale, come rami di alloro o di rosmarino benedetti.

Anche i rintocchi della campana servivano per mettere in fuga dai temporali o dalla temuta grandine («suonare per il tempo»). Queste abitudini si estesero in tutta l’Europa cattolica dal Medio Evo fino all’Età Moderna. C’erano diversi rintocchi di campana, a seconda delle zone. I rintocchi servivano anche ad avvisare i contadini del pericolo imminente per i campi coltivati. Quando udivano questi rintocchi, i contadini sospendevano qualunque attività per correre a casa a mettersi in salvo. Tutto questo e molto di più trova spazio nell'universo meteorologico: luogo dove scienza e tradizione si danno la mano.

La crescita del fiume maggiore o minore era un indice piuttosto affidabile sulla produzione dei campi per l’anno seguente, e anche sulle entrate del faraone con le tasse che avrebbe riscosso. A partire dalla metà di agosto fino alla fine di settembre, l’inondazione copriva la maggior parte della valle fino all’arrivo della stagione del Peret, quella invernale, in cui le acque si ritiravano e i terreni venivano in superficie, coperti di limo, pronti per la semina.

Anche gli antichi Egizi lasciarono per iscritto alcune descrizioni dei fenomeni meteorologici, tra le iscrizioni si distingue la cosiddetta Stele della Tempesta, che risale a 3.500 anni fa, dove si racconta di un tempo burrascoso in modo atipico avvenuto probabilmente in Egitto durante quell’epoca. Nonostante ciò, solo nella Grecia classica si incontrano i primi tentativi di spiegare in modo razionale – e non solo di descrivere – le metamorfosi atmosferiche.

Aristotele e il primo trattato meteorologico

Fra il VI e il IV secolo a.C. in Grecia fiorì una cultura senza precedenti nella storia dell’umanità, che decise la rotta della civiltà occidentale. Un folto gruppo di filosofi e uomini di scienza cambiarono il nostro modo di vedere il mondo. Oggi non esiste una branca del sapere che non sia fondata sui primi tentativi del sapere classico. Tutti abbiamo un debito verso questi illustri sapienti ellenici. Il più influente è stato Aristotele (384-322 a.C.), colui che ci ha lasciato l’eredità culturale più vasta.

Durante la sua vita si interessò praticamente di tutto. Fra le materie di cui ha scritto ci sono la filosofia, la logica, la metafisica, la politica o l’etica; senza dimenticarci anatomia, zoologia, botanica, astronomia, o meteorologia, così chiamata grazie a lui. Si pensa che abbia scritto 150 trattati differenti (alcuni contenenti più volumi), dei quali solo un quarto è giunto fino a noi.

Aristotele affrontò questioni relative al tempo e al clima in diversi trattati, ma non fu l’unico filosofo greco a provarci. Per esempio, Teofrasto (372 c.-288 a.C.) nella sua opera De Signis elenca i «segni» o le predizioni sul tempo che si utilizzavano allora, come le previsioni basate sul colore del cielo. Si rese conto che i colori assunti dal cielo e dalle nuvole al tramonto danno indizi sul tempo che farà. Il colore giallo venne associato al vento e, se al tramonto era il colore predominante, il giorno dopo, quasi sicuramente, avrebbe soffiato il vento. Simili deduzioni cominciarono a farsi anche per altri colori del cielo, come il rosso, il viola o l’arancione.

Nel primo secolo della nostra era, anche Plinio il Vecchio (23 c.-79), nel suo libro Historia Naturalis, dedicò un intero capitolo ai segni del tempo a partire dall’aspetto della Luna, mentre nel II secolo, Claudio Tolomeo (100-170) scrisse il suo famoso Tetrabiblos, considerato il trattato astronomico più completo e influente della storia. In quest’opera enciclopedica, compariva anche un riassunto dei segni meteorologici.

Tornando ai trattati aristotelici, nei Problemi il sapiente di Stagira si pone e soddisfa domande del tipo: «Perché l’aria è più fredda all’alba che alla sera?», «perché l’alba è più vicina alla notte che la sera al mezzogiorno?»… Invece, il suo trattato meteorologico per eccellenza, opera di riferimento sulla meteorologia per ben 2.000 anni è la Meteorologia (Meteorologica in latino), scritto intorno all’anno 350 a.C..

Pur essendo un trattato soprattutto empirico, molte delle supposizioni che avanza Aristotele sono risultate false, e, nonostante ciò, resta un’opera chiave nello sviluppo che ha avuto la meteorologia. Rischiò persino di andare persa! A seguito della caduta dell’Impero romano d’Occidente, nel corso del V secolo, questa e molte altre opere di Aristotele e altri autori classici caddero nell’oblio.

Una buona parte dei volumi finì distrutta anche durante le invasioni dei barbari o in seguito a incendi – come quello scoppiato nella biblioteca di Alessandria. Fortunatamente, non toccò lo stesso destino alle opere cadute in mano agli arabi, che si impegnarono a tradurle nella loro lingua, così preservandoci dalla loro definitiva perdita. La Meteorologia fu una di queste.

Tempo dopo, nel XII secolo l’opera venne tradotta dall’arabo al latino presso la famosa Scuola di traduttori di Toledo, sotto il regno di Alfonso X di Castiglia, detto il Saggio. Si occupò della sua traduzione Gherardo da Cremona (1114-11187) e nel Medio Evo il testo ebbe grande diffusione tra i monasteri e le università europee. Diventò in breve il testo di riferimento per la materia e restò tale praticamente fino all’Illuminismo (XVIII secolo).

Fra gli eruditi del Medio Evo divennero molto popolari anche altri trattati che avevano un taglio simile, tra cui si distinguono le Questioni naturali di Seneca (4-65). Attraverso gli otto libri che costituiscono quest’opera, il politico e scrittore romano – nato a Cordova nella penisola iberica – disserta su venti, fulmini, tuoni, nubi e altri fenomeni atmosferici.

La definizione di una nube data da Seneca era molto diversa da quella che dava Aristotele. Secondo lui, una nuvola era una «massa d’aria spessa», formata dall’accumulo di particelle secche e umide. La nube formata da particelle umide era quella che dava origine alla pioggia. Diversamente dalla posizione presa da altri filosofi, Seneca pensava che nella nube non ci fosse direttamente acqua, bensì un’aria densa e umida, cioè una cosa diversa. Quest’aria troverà nella nube le condizioni necessarie per trasformarsi in pioggia. Per Seneca, la condensazione e la caduta delle gocce d’acqua si produceva in modo spontaneo, il tutto come risultato di un raffreddamento. All’epoca, senza esperimenti fatti in laboratorio, qualunque cosa era pura speculazione, ma l’erudizione di questi sapienti vissuti nell’Antichità era così vasta, che nel dare le loro spiegazioni non andavano del tutto fuori strada.

Dopo questa breve incursione nella meteorologia prescientifica basata su speculazioni, vediamo adesso come nacquero le basi della scienza del tempo.

La Meteorologia di Aristotele

La disciplina della meteorologia venne influenzata in particolare da un’opera: la Meteorologia di Aristotele. Il trattato si compone di quattro libri, nelle cui pagine non si trovano soltanto questioni di natura atmosferica. Per dirlo con le parole di Aristotele: «(…) la stessa sostanza naturale che dà origine al vento sulla superficie terrestre produce i terremoti al suo interno, il fulmine e le nubi: perché sono tutti fatti della stessa sostanza: l’esalazione secca.»

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Edizione in latino della Meteorologia di Aristotele pubblicata a Venezia nel 1650.

Il I Libro della Meteorologia è diviso in 14 capitoli che toccano molti argomenti diversi, come la formazione delle nuvole, l’aurora boreale, l’evaporazione, le precipitazioni, la teoria delle comete (che Aristotele considerava di natura atmosferica), la rugiada, le ghiacciate, i venti e molto altro ancora.

Nel II Libro, formato da 9 capitoli, vengono approfondite le cause che danno origine ai venti, ma si parla anche del tuono e del lampo. Nel III libro Aristotele si occupa dei fenomeni ottici che si verificano nell’atmosfera, come gli aloni di luce e l’arcobaleno. Infine, nel IV Libro si parla dei quattro classici elementi (aria-acqua-terra-fuoco), inoltre si spiegano gli effetti del freddo e del calore, dell’umidità e della siccità ecc.

Quando la meteorologia diventò scienza

«Tutte le verità sono facili da capire una volta che sono state rivelate. Il difficile è scoprirle.»

GALILEO GALILEI

Una questione di peso

Ci volle del tempo prima di mettere allo scoperto la vera natura dell’aria e giungere a comprendere il concetto di pressione atmosferica, un elemento chiave nel comportamento dell’atmosfera. In assenza di vento, la presenza dell’oceano gassoso di cui siamo circondati non è palese agli occhi. Gli antichi greci furono i primi a dedurre che l’aria ha una consistenza.

Nel V secolo a.C., Empedocle (490 c.-430 a.C.) illustrò il funzionamento della clessidra, un congegno che usavano i greci come orologio ad acqua. Si trattava di un recipiente con due buchi, uno sopra e l’altro sotto. Una volta tappato il buco superiore e immersa nell’acqua, la clessidra non si riempiva completamente. Empedocle dedusse che l’aria all’interno doveva essere qualcosa che si opponeva all’elemento liquido.

Sia Parmenide (520 c.-450 c. a.C.) sia, in seguito, Aristotele, imposero l’idea che la natura «teme» il vuoto (horror vacui). Per venti secoli, nessuno osò mettere in dubbio le tesi aristoteliche, ma le cose cominciarono a cambiare nel XVIII secolo; a quell’epoca iniziarono a costruirsi in Italia le prime pompe a vuoto, che erano state ideate soprattutto per estrarre acqua dai pozzi. L’idea era davvero semplice: con l’aiuto di queste pompe si crea il vuoto in un tubo che scende fino alla superficie del liquido sul fondo: l’acqua, in modo spontaneo, tende a riempire il condotto – in precedenza occupato dall’aria – e a risalirlo.

L’ingegnosa messa in pratica dell’horror vacui funzionava bene per i pozzi dove l’acqua non era troppo profonda e, in questa situazione, la pompa non riusciva a portare l’acqua abbastanza in alto; restava sempre a 10,33 metri sopra al livello freatico. Questa circostanza lasciò sconcertati gli scienziati dell’epoca, infatti sembrava contraddire le tesi di Aristotele.

Galileo Galilei (1564-1642) fece delle verifiche con vari esperimenti e provò che era impossibile che una pompa a vuoto potesse far salire dell’acqua al di sotto di quei 10,33 metri di profondità, ma non seppe dare la giusta spiegazione del fenomeno. Secondo Galileo, arrivava un momento in cui la massa dell’acqua che risaliva il tubo pesava così tanto che collassava sotto il suo stesso peso, e questo era quanto le impediva di continuare a salire. Secondo il sapiente fiorentino, il peso stesso dell’acqua annullava la forza di risucchio ascendente.

Galileo non arrivò a comprendere il concetto di pressione atmosferica. Fu il suo discepolo Evangelista Torricelli (1608-1647) a risolvere l’enigma delle colonne dei liquidi ascendenti e dunque a inventare il barometro di mercurio, nel 1644. Torricelli capì che non era il vuoto a risucchiare l’acqua dal tubo facendola salire, bensì era il peso che l’aria esercitava sul livello freatico a spingerla verso l’alto attraverso il tubo. Un’idea (davvero rivoluzionaria!) che fece crollare le idee aristoteliche sull’essenza dell’aria.