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Il libro

È notte. Suonano alla porta. Agnes viene arrestata. Il motivo le verrà spiegato solo più avanti: è accusata di traffico di droga e rischia fino a dieci anni di carcere.

Con grande forza espressiva Agnes descrive la quotidianità nel sovraffollato carcere femminile “Dozza” di Bologna e le condizioni di vita che logorano animo e fisico delle detenute. È giusto che a causa dei loro sbagli debbano rinunciare anche al diritto alla salute? Al diritto a un processo equo, al diritto a essere trattate con umanità? Questo libro racconta il senso di impotenza e di smarrimento ma anche il percorso per ritrovare sé stessi, ritrovare la speranza e riconquistare la libertà.

Un esempio per chiunque cerchi di sollevarsi dai propri guai.

Tiziana Tomassetti, arteterapeuta

Agnes Schwienbacher

RINCHIUSA

In balia della giustizia

traduzione di Andrea Malfagia

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Pubblicato con il contributo della Ripartizione Cultura italiana della Provincia autonoma di Bolzano-Alto Adige

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I quadri presenti nel libro sono opere di Agnes Schwienbacher e sono stati dipinti nei suoi anni di reclusione durante i corsi di pittura e di arteterapia. I fermo immagine tratti dal documentario “Milleunanotte” (2012) sono stati pubblicati su gentile concessione del regista Marco Santarelli. Ringraziamo cortesemente della collaborazione.

Titolo dell’opera originale:

Unrecht. In den Mühlen der italienischen Justiz

© Edition Raetia, Bolzano 2020

Coordinamento editoriale: Magdalena Grüner

Traduzione: Andrea Malfagia

Revisione: Milena Macaluso (Ex Libris, Bolzano)

Foto di copertina: iStock, Instants

Progetto grafico: Typoplus, Frangarto

Stampato in Europa

ISBN: 978-88-7283-715-3

ISBN e-book: 978-88-7283-723-8

Per consultare il nostro catalogo: www.raetia.com

Per domande e osservazioni: info@raetia.com

INDICE

Prefazione di Tiziana Tomassetti

Antefatto

Il mio arresto

Dieci giorni in isolamento

La prima compagna di cella

Il funerale della mamma

Natale dietro le sbarre

Riso in bianco e vigilia di Natale

Braccio di massima sicurezza 2008

Contatto con l’esterno

Arresti domiciliari presso “Il Sorriso”

È troppo tardi

Punizioni senza fine

Di nuovo in cella

Sono ricca di tempo

Un senso di libertà

Mille e una notte

Ritorno a casa

Il mio rilascio

Il fine pena si avvicina

Rivedersi

Finalmente libera

Ringraziamenti

L’autrice

PREFAZIONE

di Tiziana Tomassetti, arteterapeuta

Agnes viene arrestata il 13 novembre 2007, giorno del mio compleanno. Solo questa coincidenza mi fa pensare ai molteplici fili invisibili che mettono insieme le persone, creando una trama sottile e allo stesso tempo potente e indissolubile. Incontro Agnes in carcere perché io sono infermiera SerT; la vedo arrivare e mi domando chi sia questa donna e resto basita quando si avvicina a me per assumere la terapia. Sono sconcertata nel vedere una donna matura, assolutamente gradevole, vestita bene, capelli lunghi curati, sguardo dolce e accogliente ma allo stesso tempo smarrito.

Un dettaglio mi colpisce particolarmente: le mani. Mani da lavoratrice che mi suggeriscono una storia di vita non facile e soprattutto una donna con delle mani così forti non può essere una detenuta! In seguito scopro che quella donna è anche in isolamento e sottoposta a regime di massima sorveglianza. Una cosa che non riesco proprio a immaginare.

Ho modo di approfondire la conoscenza di Agnes durante gli incontri di arteterapia, in quanto da detenuta in isolamento rientra nel progetto di terapia complementare inerente al percorso di psicoterapia. Mi trovo di fronte a una donna, madre, ricca di esperienze e interessata alla vita, capace di trasformare qualsiasi materiale in qualcosa di utile.

Agnes manifesta una capacità di ascolto e di osservazione straordinarie, assetata di fare cose che possano nutrire la sua anima attraverso la musica, la scrittura e il colore. Determinata a chiedere fino a ottenere attenzione da parte di un sistema rigido quale può essere un istituto di reclusione che ha tempi di risposta lunghissimi.

Una donna tenace.

Quella con Agnes è un’esperienza singolare, non ho mai pensato a lei come a una tossicodipendente ma come a una donna che vive la vita fino in fondo, il che non esclude la possibilità di inciampare in situazioni pericolose. Attraverso questa esperienza Agnes ha dimostrato le sue qualità; andare fino in fondo e assumersi le responsabilità avendo la lucidità e la fermezza d’animo di accettare anche tutti quegli aspetti di ambiguità, di incomprensione che si possono creare quando non si ha la piena padronanza della lingua. Ecco, Agnes manifesta il suo essere donna di montagna con la calma e la determinazione con cui passo dopo passo si arriva alla vetta. Non manifesta nessuna furbizia per cercare una scappatoia, lei sa qual è la meta, studia e vuole conoscere il percorso, il sentiero che la porterà in cima.

Lei porta in evidenza che la rieducazione basata sul fare nulla, tramite cui si giunge all’apatia e alla noia, non aiuta a riflettere su sé stessi; per riflettere bisogna avere coraggio e forte volontà e un pensiero nitido che può essere sostenuto dalle relazioni, vedi la cospicua corrispondenza, e dall’arte che cura con la conoscenza, la sperimentazione, l’osservazione e infine la bellezza della creazione stessa. Tutta questa esperienza non è stata priva di delusioni, senso di ingiustizia e impotenza, ma è stata trasformata anch’essa in bellezza e passione che Agnes non vuole tenere tutte per sé ma che ha urgenza e determinazione e soprattutto tanto amore da volerle condividere con gli altri. Vuole essere d’esempio e specchio per chiunque cerchi di sollevarsi dai propri guai.

Del ritorno eri sicura,

hai anche vinto quell’ombra scura,

hai superato un dolore atroce

alla tua storia hai dato voce.

tratto da “Zirudella per Agnes”

di Biancamaria Cattabriga

Alle persone che non mi hanno lasciato sola

ANTEFATTO

Giugno 2007. Ero malata.

Lavoravo nella ristorazione come lavapiatti in cucina.

Si fecero sentire degli insoliti dolori di pancia. Il mio medico curante diagnosticò un’infiammazione intestinale. Continuai a lavorare, nella speranza che guarisse da sola. Capita spesso di avere dei dolori da qualche parte, che poi scompaiono. Non volevo mancare al lavoro, meno che mai in piena stagione. I dolori, tuttavia, peggioravano di settimana in settimana e si andavano estendendo alla zona della schiena. Le pile di piatti che portavo si facevano sempre più piccole. Sedere all’organo, quando suonavo in chiesa, divenne sempre più insopportabile. Persi quindici chili. A quel punto mi recai al Pronto Soccorso dell’ospedale di Merano. Mi misero in lista per fare diversi esami di controllo, mi rilasciarono un certificato di malattia e mi rispedirono a casa con degli antidolorifici. Fu il mio addio definitivo all’acquaio. Quando l’effetto degli antidolorifici svaniva, potevo alzarmi dal divano solo a quattro zampe e a malapena camminare. Ero disperata. Mi sentivo come un verme, che può solo strisciare per terra. “Devi fare qualcosa, non possiamo più vederti in questo stato!”, dicevano i miei figli. “Che devo fare, se i medici mi spediscono a casa?!”

Una settimana più tardi, in occasione di un controllo, m’imbattei in un conoscente, un chirurgo, che notò subito quanto fossi curva nel camminare Gli raccontai l’accaduto. Mi conosceva dai tempi delle superiori e sapeva che non sono una piagnucolona. Che si sia arrivati in fondo alla questione lo si deve a lui. Fu così infatti che, un po’ sollevata, in breve tempo finii sotto gli occhi catodici della moderna tecnologia, circondata da tubi e macchinari, un esame dopo l’altro. Alla sera, una équipe di medici riunita attorno a me emise la diagnosi: spondilodiscite con ascesso vertebrale. “Lei ha un’infiammazione della cavità addominale, un disco intervertebrale completamente usurato, nonché una lesione ossea a una vertebra lombare. È erosa e perforata come una spugna. Se si rompe, lei resterà su una sedia a rotelle per il resto dei suoi giorni…”, mi spiegò il medico con pazienza. Venni immediatamente ricoverata e mi venne prescritto riposo assoluto a letto. Potevo spostarmi un po’ solo sulla sedia a rotelle. Mi fidai ciecamente degli addetti ai lavori e li lasciai andare a briglia sciolta. Finalmente un aiuto! Seguì a ruota un trasferimento alla clinica dell’Università di Innsbruck. I medici venivano di continuo a pizzicare qua e là le mie gambe, domandando se sentissi qualcosa. Sentivo tutto. Non potevano credere che non avessi alcun deficit neurologico. Il midollo spinale lungo il tratto della quarta e quinta lombare era compresso e i percorsi neurali interrotti. Dovetti restare per un mese in ospedale, dove anche mia sorella Maria veniva curata a causa di un tumore. Mi veniva a trovare lei, perché poteva camminare. Eravamo entrambe fiduciose.

Affinché potessi tornare a muovermi eretta mi fu predisposto un busto ortopedico su misura. Fui dimessa con una gran quantità di pillole e lasciata a riposo per malattia per altri tre mesi. Il 12 novembre 2007, durante un controllo presso la clinica dell’Università, si parlò di “operare un disco intervertebrale”. Ma andò tutto diversamente.

IL MIO ARRESTO

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All’ingresso del carcere femminile “Dozza” di Bologna (fermo immagine tratto dal documentario “Milleunanotte” del regista Marco Santarelli, 2012)

13 novembre 2007

Alle quattro del mattino il campanello di casa mi scuote da un sonno profondo. Mi alzo di malavoglia e abbandono intorpidita il mio letto caldo. “Chi sarà a quest’ora?”, penso. “Chi è?”, domando attraverso il citofono. “Siamo della Questura e dobbiamo consegnarle dei documenti.” Mi suona strano. Mi infilo i vestiti, mi affretto giù per le scale e apro il portone d’ingresso. Stazionano lì davanti due uomini con un sogghigno in volto e una donna che mastica una gomma, tutti in abiti civili. “Dobbiamo condurre una perquisizione!”, fa uno di loro. Come sarebbe a dire? C’è qualcosa che non va, penso io. “Prego”, rispondo con gentilezza. Faccio loro strada nel mio appartamento dove, chiusa la porta dietro le spalle, mi dicono: “Lei deve andare in prigione!”. Oddio, un brivido mi percorre e rispondo con un nodo alla gola: “Come?”. Esteriormente rimango calma e mi sottometto senza opporre resistenza. “Per favore, concedetemi un po’ di tempo, devo prima preparare le mie cose.” Tengono d’occhio attentamente ogni movimento che faccio. Non me la svigno di sicuro. Devo avvisare i miei figli più piccoli che vivono ancora con me. Non posso mica sparire nel cuore della notte senza lasciare tracce. La cosa pare non avere alcuna importanza per questi signori. Cavolo, come devo fare, come posso mai dare loro una notizia così terribile a quest’ora? Non ho scelta. Non posso aspettare, né rimuginarci su. Busso alla porta di mia figlia, apro appena uno spiraglio e la sveglio con cautela… Il più giovane dei miei quattro figli dorme nell’altra camera. Glielo dirà lei, prima di andare a scuola. Devo incaricare mia figlia di sbrigare questo e quest’altro per conto mio. Ho molteplici impegni legati alla mia attività di organista, lavoretti minori e altre cose ancora da sbrigare. Naturalmente non mi viene in mente tutto al volo e già i signori mi fanno fretta: “Dobbiamo andare!”. La perquisizione non è più all’ordine del giorno. Deve essere stata una scusa. Agitata, cerco di mettere i miei pensieri in fila e considero cosa debba portare con me. Faccio coraggio a mia figlia. “Andrà tutto bene, avvisa le tue sorelle e i miei, restate uniti, torno presto!” Ci scambiamo un ultimo saluto abbracciandoci forte e trattenendo le lacrime. Con quattro stracci, il busto ortopedico a salvaguardia della mia schiena malata e una borsa con tutto il necessario, salgo su un’anonima auto grigia e marrone. Sul tetto del veicolo c’è un piccolo lampeggiante blu. L’interno è confortevole, non sembra neanche un’auto della polizia. Che questi vogliano rapirmi? I due uomini salgono davanti, la donna si accomoda sul sedile posteriore accanto a me. Dalla mia parte viene attivata la chiusura di sicurezza e l’auto si mette in moto. Un navigatore indica subito al conducente la strada da fare. Davvero costui non sa come uscire dalla valle?

“Perché mi siete venuti a prendere a quest’ora?”, chiedo durante il percorso. “Per non disturbare i vicini.” “E perché devo andare in prigione?”, torno a chiedere. “Dovrebbe pur saperlo!”, fa la donna con voce altezzosa. “No che non lo so!”, replico. Non mi viene spiegato nulla, quasi non dicono una parola.

Giunti alla Questura di Bolzano verso le cinque del mattino, mi viene consegnato un atto di accusa lungo 111 pagine, tutto in italiano, e non mi resta che aspettare e aspettare. Nel frattempo lo sfoglio un po’ e vi vedo elencate le mie telefonate e i messaggi di testo degli ultimi mesi, con tanto di ora e localizzazione. Come sarebbe a dire? Le mie faccende private non riguardano nessuno! Richiudo l’atto di accusa.

Dal fondo della stanza sento poi dire: “Rovereto occupato, Verona occupato … Bologna!”1

Mi viene in mente che ho promesso a mio fratello di mungere le sue mucche questa mattina. Vorrei chiamarlo, tuttavia i signori hanno sequestrato la mia SIM. Chiedo loro con cortesia: “Potrei telefonare a mio fratello? Dovrei sbrigare del lavoro in stalla, devo dirgli che non posso andare. O potreste avvisarlo voi?”. “Dopo”, è la risposta. Aspetto, aspetto, domando, torno a domandare e mi rendo conto che la mia richiesta neanche la prendono in considerazione. Ottengo invariabilmente la stessa indifferente risposta: “Dopo!”. Posso immaginare che non sappiano niente di mucche. Vuoi forse che tra loro ci sia un contadino? Divento insistente, spiego loro che le mucche non si possono lasciare a sé stesse così a cuor leggero e che mio fratello starà fuori tutto il giorno. Insisto per fare una chiamata e alla fine mi danno ascolto. Sono le sette e sono in linea con mio fratello Gust. Mi viene da piangere, al punto che riesco a malapena a proferire parola: “Ciao… oggi non posso venire, devo andare in carcere e non so quando tornerò…”. Lui non dice granché, poche parole, calmo e fiducioso. Le sue parole m’infondono coraggio. Sono le ultime parole che mi arrivano da casa e le registro dentro di me come su un nastro magnetico. Mando giù le lacrime. Su con la vita!

Domando poi se il mio arresto comparirà sui media. “Non si preoccupi!”, rispondono gli agenti. “Per favore, mettetemi per iscritto che non succederà, ne ho il diritto!”, dico. “Non è necessario, non capiterà”, mi viene assicurato, con un tono come se un arresto fosse una cosa normale, di tutti i giorni. Non gli credo e non ottengo alcunché di scritto.

Inizia il lungo viaggio alla volta di Bologna. Le imponenti montagne scompaiono gradualmente e mi imprimo nella mente più che mai il bellissimo, ampio paesaggio. Era molto tempo che non stavo lontana da casa, sebbene viaggi volentieri. Sono un po’ più tranquilla perché mi convinco che resterò in carcere solo per poco tempo, non ho fatto nulla di male. Coglierò questa occasione per liberarmi dalla mia schiavitù segreta, la dipendenza dall’eroina.

I miei occhi si fanno sempre più sensibili alla luce del giorno. Li socchiudo. Divento più debole e spossata, come ogni giorno in cui non mi procuro la “roba”. Gli agenti della Questura non dicono una parola per tutta la durata del viaggio. Nell’auto regna il silenzio, si sentono soltanto il motore e il sibilo ovattato delle auto che ci sorpassano. Solo il navigatore interrompe di continuo questo silenzio, come se si parlasse addosso: “Andare dritto… andare dritto…”. Una decina di volte così, sempre con lo stesso tono. Assorta nei miei pensieri, faccio monologhi con me stessa, mentre esamino la signora accanto a me che rumina la sua gomma da masticare senza interruzione. Deve essere un lavoro noioso, m’immagino. Mi chiedo cosa farei al suo posto. Mai e poi mai vorrei dover portare qualcuno in carcere.

A mezzogiorno raggiungiamo gli altissimi e spessi cancelli di ferro, della “Dozza”, il carcere di Bologna. Attraversate queste porte, il viaggio continua in un labirinto di mura e strade, passiamo da un vicolo cieco all’altro. Nessuno è pratico del luogo e il navigatore si è ammutolito. A un certo momento trovano la “matricola”, l’ufficio accoglienza nell’edificio del carcere maschile. Segue una lunga procedura, perquisizioni e registrazioni, mi fotografano e mi rilevano le impronte digitali. Viene presa nota di altri dati.

Ogni centesimo che mi rimane insieme ai miei ultimi cinquanta euro vengono messi sul mio conto carcerario. Il mio telefono cellulare viene depositato in ufficio oggetti di valore. Leggo da qualche parte “Casa di Grazia e Giustizia”. Sul retro di un parco sorprendentemente curato, con alberi e cespugli, c’è l’entrata un po’ nascosta del carcere femminile. Si apre una pesante porta di ferro blu scuro e gli scorbutici agenti mi consegnano alle guardie carcerarie.

1 In italiano nell’originale. Il corsivo è del traduttore. D’ora in avanti è da intendersi così ogni qualvolta s’incontreranno termini o frasi poste contemporaneamente tra virgolette e in corsivo. [N. d. T.]

DIECI GIORNI IN ISOLAMENTO

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Cortile del carcere femminile “Dozza” di Bologna (fermo immagine tratto da “Milleunanotte”)

Attraverso vuoti corridoi con il pavimento in grigio cemento, levigato e sudicio, le guardie carcerarie mi conducono in una piccola stanza. Vi sono una grande finestra, sprangata con sbarre di ferro, un armadio di metallo con ante scorrevoli e un tavolino di legno. C’è odore di chiuso e di muffa. Mi portano via le ultime cose: la borsa di pelle, le chiavi di casa, il blocchetto per gli appunti, la spazzola per capelli, le sigarette e il portafogli vuoto. Perfino la giacca e i lacci delle scarpe, tutto viene registrato e depositato nel “casellario” (magazzino). Una guardia mi perquisisce. “Spogliati!”, mi ordina. Mi dà del tu, sebbene non mi conosca. Mi levo adagio i vestiti, rimuovo con cautela il busto ortopedico. Lei palpa ciascun capo, perfino il busto. Non me lo vuole più restituire, vuole depositare anche quello. Probabilmente crede che lo porti per divertimento! Naturalmente dei dolori che provo senza busto neanche si rende conto. Vede tuttavia che mi reggo in piedi a fatica e che devo appoggiarmi al tavolo. Le spiego che sono ammalata, che ho problemi a un disco intervertebrale, che devo essere operata e che il medico mi ha prescritto il busto. Lei ordina ancora: “Levati la canottiera… il reggiseno, anche le mutande! Gambe divaricate! … Accovacciata! … Di nuovo in piedi! … Di nuovo giù! …”, e così un paio di volte ancora. Eseguo i suoi comandi umilianti. Cosa vuole da me?!

Mi è consentito rivestirmi, mi danno due sacchetti di plastica trasparente, contenenti due lenzuola, una federa, due piatti di metallo, un cucchiaio e una forchetta, due bicchieri di plastica, sapone, dentifricio e spazzolino da denti, qualche bustina di shampoo e due rotoli di carta igienica, oltre a una pesante coperta slavata. Mi sento sfinita e incredibilmente debole. Accompagnata dalla guardia salgo una scala, porto con difficoltà questa roba e il mio atto di accusa al primo piano, sezione A, cella 19. Ogni minimo movimento mi procura mal di schiena. Perché devo portare tutto da sola? Perché eseguo i suoi ordini? Il dottore me lo ha espressamente detto di non portare nulla di pesante…

Alle tredici, una spessa porta blindata senza maniglia si serra rumorosamente dietro le mie spalle con uno scatto, come se dovessero rinchiudere un elefante. La cella è disgustosa, umida e fredda. Il pavimento è sudicio, tutto coperto di polvere, le pareti imbrattate di muco, gomma da masticare e dentifricio, su di esse nomi, date e frasi nelle lingue più diverse. La cella ha una grande finestra con sbarre di ferro e in più una fitta griglia che non lascia passare neanche un dito. Questa griglia rende la cella quasi buia. Per guardare fuori devo avvicinarmi. Ci sono due letti arrugginiti, ancorati al pavimento, un ammuffito materasso di gommapiuma e un cuscino fatiscente, oltre a un tavolino e uno sgabello, due armadietti avvitati al muro e un calorifero tiepido. Sopra la porta blindata si trova un piccolo televisore, protetto da una spessa lastra di vetro, con canali esclusivamente italiani. Non ho mai seguito i programmi italiani. Inoltre, al momento la tv non m’interessa proprio. Tutto in questa stanza ha un’aria vuota e fredda. Attraverso una porta di ferro ho accesso a un gabinetto con bidet e lavabo dall’acqua fredda che odora di cloro, l’acqua potabile. Priva di forze, mi lascio cadere sul letto, che con infinita fatica ricopro con il lenzuolo. La schiena mi fa male, tremo, ho freddo e tutto mi disgusta. Vorrei solo avvolgermi in un caldo piumone e addormentarmi. Qui te lo puoi sognare, il piumone. Devo accontentarmi della rigida coperta e la mia calda giacca invernale giace nel “casellario”.

Oh mio Dio, dove sono capitata?

Trascorro dieci giorni in questa cella di isolamento, giorno e notte – da sola. Se solo avessi un pianoforte! La musica mi ha sempre rimesso in sesto. Mi sento sola e abbandonata, depredata e vuota. Le lacrime mi scorrono sul viso. “O Traurigkeit, o Herzeleid!”2 Non mi è concesso di parlare né di vedere nessuno – perché, non lo so. La mia stessa voce mi diventa estranea. Parlo con un ragno che ha costruito la sua ragnatela in un angolo del pavimento. Se fossi piccola come lui scapperei subito fuori di qui, attraverso le fitte maglie di questa bocca di lupo, verso la libertà. Fuori tutto è grigio, il cielo, le mura e una serra vuota e abbandonata. Una guardia cammina avanti e indietro giorno e notte, su un lungo muro, a passi regolari. I miei figli, cosa faranno? Mi mancano così tanto. Hanno bisogno di me e io ho bisogno di loro! A casa avrei delle cose da fare, suonare per la messa della domenica, esercitarmi all’organo, lavorare. Chi farà tutto questo al posto mio? Non posso mica piantare in asso tutto e tutti! Devo andare a casa!

Di tanto in tanto le guardie mi controllano attraverso una piccola apertura nella porta, il “blindo”, come lo chiamano, e mi consegnano qualcosa da mangiare. Da bere c’è caffè caldo al mattino, se no per l’intera giornata nient’altro che la fredda acqua al cloro del rubinetto. Quasi non riesco a berla. Dolori di stomaco mi tormentano un giorno dopo l’altro. Lavo i piatti con l’acqua fredda e una piccola spugnetta che mi hanno dato. Il grasso del cibo resta attaccato ovunque. Non ho detersivo, né tanto meno carta, a parte la scarsa carta igienica. Penso di pulire con un panno, ma un panno non ce l’ho. Provo con il sapone e risciacquo ben bene, ma non va lo stesso, i piatti odorano di sapone. Non sono mai stata così misera!

Mi viene in mente che dovrei disdire con urgenza la lezione del mio insegnante d’organo, così come i miei appuntamenti in ospedale. Automaticamente caccio più volte la mano nelle tasche dei pantaloni in cerca del mio cellulare, ma invano, non c’è più alcun cellulare. L’unico mezzo di comunicazione con il mondo esterno è la posta. Mi hanno portato via la rubrica e può volerci molto tempo prima che arrivi una lettera. Alcuni indirizzi li conosco a memoria. Devo cancellare gli appuntamenti! Altrimenti chi lo fa per me? Chi avverte l’ospedale? La cosa non mi dà pace. Non ho modo di fare neanche un minimo di ordine. Scrivere alla mia dottoressa? Dove? Nome, ospedale, città, sperando che la lettera arrivi in tempo? Per l’amor di Dio, è tutto complicato.

Il tempo sembra fermarsi. Così mi passano tante cose per la testa. Mi vengono in mente gli animali che vivono in gabbia, devono sentirsi malissimo. Poi vedo davanti a me il ghigno degli agenti della Questura, quando stazionavano sulla mia porta d’ingresso, come se avessero voluto dire: “Ah, ora ti abbiamo in pugno!”. Non potete avermi, non ho alcuna paura. Reprimendo tutto il dolore, mi tiro su e ripulisco la cella dalla sporcizia altrui. Lavo le pareti imbrattate fino a un metro e mezzo di altezza, palmo a palmo. Il loro colore, che è difficile a definirsi, un misto di beige, rosa e grigio, si schiarisce un poco. La porzione superiore delle pareti è di un bianco sporco, più un giallo-grigio. Di sicuro non è stata più tinteggiata da decenni. Pulisco il pavimento di liscio cemento grigio scuro in ogni angolo, con acqua fredda e detersivo per pavimenti. Ce ne sono flaconi in quantità, gratis, perfino uno straccio per pavimenti nuovo, con il quale pulisco anche le pareti. Perché qui ci sono solo pavimenti in cemento? Sono quanto mai nocivi per i piedi e li trovo davvero brutti.

Malgrado tutto, mi prefiggo di dare un taglio al mio consumo di droga e di sfruttare questa situazione indegna per tale scopo. Sì, a una che è rinchiusa in una cella è interdetta ogni possibilità di procurarsi la roba. Penso a quanto in sostanza risparmio se non spendo nulla. La mia montagna di debiti quanto meno non diventerà più grande. I miei soldi non bastavano più per nulla e la mia salute si è logorata. Il medico del carcere mi ha prescritto il metadone, un farmaco sintetico sostitutivo, per evitare gli effetti di un’astinenza repentina. Tuttavia non voglio cadere da una dipendenza all’altra. So quanto sia pericoloso questo farmaco. Quindi è una soluzione temporanea! Voglio tornare a essere libera da tutto questo. Sono stata sana per tutta la vita e sono solo da poco in questo casino.

Rileggo l’atto di accusa, non capisco nulla di questo astruso linguaggio giuridico.

All’improvviso la porta della cella viene spalancata. “Vieni dall’avvocato”, dicono. Entro cinque giorni dall’arresto il detenuto deve essere interrogato dal Pubblico Ministero e magari può essere già rilasciato, se le accuse non reggono. Che mi rispediscano a casa?

Presto mi ritrovo in un piccolo locale, la stanza degli interrogatori, accanto a me il mio avvocato, di fronte il Pubblico Ministero. Si comunica solo in italiano. Dice il Pubblico Ministero: “Stiamo parlando di mezzo chilo di eroina, non possiamo farci granché!”. Il mio avvocato annuisce senza dire molto. Tutto qui? Non mi fanno neanche una domanda. Il mio avvocato non sa cosa sia successo, non mi ha parlato nemmeno una volta! Non ci capisco niente. In vita mia non ho mai avuto a che fare con una cosa così grossa. Questa è chiaramente una falsa accusa! Tranne che per il mio uso personale non avevo un bel nulla e il consumo personale non è punibile. Posso consumare quel che voglio. Ho l’impressione di non essere tutelata. Perché nessuno mi interroga riguardo alla mia accusa? Il mio avvocato non dovrebbe difendermi? Mi ha deluso ma devo cercare di farmi coraggio. Chiarirà di certo ogni cosa, devo solo aver pazienza, cerco di fidarmi di lui, sicuramente tornerò presto a casa! Ora devo rimettermi in salute. Tornata in cella, cerco un’occupazione e gioco con la mia ombra sul muro, come facevo da bambina. Riesco ancora a mimare il cane che abbaia e l’aquila che vola.

Sono autorizzata a camminare in cortile per quasi un’ora e mezza al giorno, da sola e senza sorveglianza. Anche lì c’è una superficie in cemento, circondata da mura alte quattro o cinque metri, pure in cemento, niente fiori, né piante, né terra, solo in un angolo in alto sporgono un paio di rami da un meraviglioso albero oltre le mura. Non posso certo toccarli, né arrampicarmici, ma guardarli sì. Mi piacciono gli alberi, e questo qui in particolare, poiché è l’unico che posso ancora vedere. Cammino lungo le mura, sempre lo stesso giro, come se dovessi andare urgentemente da qualche parte. Mi sento piccola e impotente. Cammino irrequieta, come se dovessi ripercorrere a ritroso ciò che è successo. Leggo una frase scarabocchiata sul muro: “Non è forte chi non cade mai, è forte chi cade e si rialza”. Per il resto i muri sono vuoti, monotoni e grigi. Potrebbero ben renderli più gradevoli! Vorrei dipingervi immagini gigantesche. Il mio sguardo vaga in alto su per le mura. Spicca il cielo, velato dalla foschia biancastra. Gli rivolgo una supplica. L’aria è fresca e sento sfrecciare le auto in lontananza. Di tanto in tanto un aereo romba con incredibile violenza, molto vicino nel cielo sopra di me. L’aeroporto deve essere vicino. Li vedi ergersi, come giganti. Manca poco che sfiorino le mura della prigione. Ho la sensazione che volino talmente vicini che potrei vederne gli occupanti. “Portatemi con voi, calatemi una corda o fracassate queste mura!” Credo che sarebbe l’unico modo per evadere. Nessuno mi ascolta, gli aerei si allontanano e il loro rimbombo si smorza.

Di tanto in tanto una detenuta si affaccia a una delle finestre sopra di me, così posso scambiare qualche parola, purché non ci sia in giro nessuna guardia, e chiedere una sigaretta. “Devo accenderla o hai del fuoco?” “Non ne ho, sarebbe gentile, grazie di cuore!” Lei lascia cadere giù dalla finestra una sigaretta già accesa. Che meraviglia, farsi finalmente una fumatina e fare conoscenza. Le colombe, timide come me, mi tengono compagnia e cammino fino a quando il mio corpo si scalda e l’oppressione si placa un po’, anche quando fa freddo o piove. Con pezzetti di carta trovati in giro formo delle palline e le uso per esercitarmi in giochi di destrezza. Ho sempre voluto imparare, sin da quando i miei figli hanno fatto un corso di arti circensi.

Tornata in cella, sento voci femminili ovattate, che mi arrivano attraverso la porta blindata, sopra al fragore dell’interminabile aprirsi e chiudersi delle porte in ferro e allo sbatacchiare delle grosse chiavi della prigione. Sono curiosa di sapere quali donne siano rinchiuse qui. All’improvviso la porta della mia cella si spalanca di nuovo ed entra una compagna con armi e bagagli. La sua lingua madre è l’italiano.

2 “O tristezza, o angoscia!”, parole di un famoso corale luterano. [N.d.T.]

LA PRIMA COMPAGNA DI CELLA

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Nella sala cinema del carcere (fermo immagine tratto da “Milleunanotte”)

23 novembre 2007

La mia compagna di cella Erna (nome fittizio) e io ci salutiamo. Mette giù i bagagli. Ha con sé un sacchetto trasparente incredibilmente grande, pieno di biscotti. È come se fosse arrivato San Nicolò.3 Mette lentamente in ordine le sue cose mentre parliamo un po’ l’una dell’altra. Sembra malconcia; tuttavia è gentile con me, ha anche lei dieci giorni di isolamento alle spalle. Le chiedo titubante: “Hai dei biscotti… posso annusare nel sacchetto?”. Ho una tale voglia di cose dolci! Qui non se ne trovano, se non a pagamento o quando qualcuno viene a farci visita. “Certo”, dice. “Puoi anche mangiarne, solo non tutti in una volta!” Ridiamo. Annuso dentro il sacchetto: indescrivibile, non ho mai trovato il profumo di biscotti così buono. “Grazie mille!” Mi mangerei volentieri l’intero sacchetto all’istante! Come si può andare così matti per i biscotti? L’astinenza mi provoca un desiderio ininterrotto di zucchero. Mangerei solo dolci tutto il giorno, se solo ne avessi.

Ogni sera Erna condivide con me un paio di questi deliziosi biscotti, assieme a una calda camomilla, che prepara sul suo fornello da campeggio. Non vedo l’ora che arrivi la sera. Lei è meglio equipaggiata di me ed è molto generosa. È anche pratica di questioni giudiziarie e della vita in carcere. È già stata in prigione e me ne parla subito. Di norma come funziona qui non lo vieni a sapere da nessuno. Dice molte cose, ma ne capisco solo la metà e devo chiederle di ripetere anche tre volte. La mia conoscenza dell’italiano è pessima, ho dimenticato tutto. Lei è coinvolta nella mia stessa vicenda ed è stata arrestata nell’ambito della stessa operazione. Ma non ci conosciamo. Con pazienza, mi spiega un po’ il mio atto di accusa. Siamo “in regime di massima sicurezza”, m’informa. Questo braccio non esiste nelle carceri femminili di Rovereto e Verona, altrimenti ci avrebbero portate là, perché sono più vicine ai nostri luoghi di origine. Erna infatti viene dal Trentino. “Ma non abbiamo ammazzato nessuno!”, le dico. “Siamo state accusate di associazione a delinquere, articolo 74, e traffico di droga, articolo 73. Possiamo essere già contente se non ci danno dieci anni”, fa lei. Mi rendo conto che le assassine sono nel braccio normale. Che diamine sta succedendo? Devo essere nel posto sbagliato! Se l’avessi voluto, di certo non mi sarebbe riuscito di finire qui.